Dall’esercizio di Scrittura e creatività “B&B e Hotel della meraviglia e del raccapriccio”
Gruppo di Scrittura creativa, ottobre 2017 (esercizio creato da Imma Acquaviva)
Autrice del racconto: Eleonora Urizio
Da qualche mese lavoro per la Brik’s Sell & Rent, l’immobiliare europea che ha aperto una sua filiale nella mia città. Un impiego soddisfacente e ben pagato, ma questa è la prima volta che vorrei essere altrove.
“Dobbiamo proseguire a piedi”, spiego ai clienti che sto accompagnando. E’ una giovane coppia con un notevole capitale da investire in un B&B, cercano una grande villa qui nelle colline attorno al castello di Bensò, nota meta turistica. La camminata che separa il cancello dall’ingresso della villa è di circa quattrocento metri, un lungo sentiero ghiaioso circondato da isole di fitta vegetazione e prati incolti. Una distanza assurda in un’atmosfera di abbandono che renderebbe lugubre qualsiasi abitazione, figuriamoci un ex manicomio. Accelero il passo senza guardare intorno.
Raggiungiamo l’uscio, apro con decisione il portone e finalmente entriamo. Ho paura del buio, ho paura di questa casa, perciò ho avuto l’accortezza di ordinare alle donne delle pulizie di lasciare aperte le persiane di ogni finestra. Ma la luce del sole rende la casa innocente e colorata quanto una musichetta allegra nel cortile di un obitorio. Senza fermarmi troppo in ogni sala continuo a srotolare la casa sotto ai loro occhi, e con ansia crescente mi rendo conto che è infinita come la ricordavo, che i saloni sono piste da ballo e le camere da letto un’infilata di celle. Ho solo un obiettivo: chiudere tutto prima che faccia buio, prima che si scateni l’inferno dei fantasmi nella mia testa.
Avevo undici anni quando entrai la prima volta in questa casa assieme alla mia piccola sorella: Giselda ne aveva solo cinque. Ancora adesso il ricordo di quel giorno è sempre in agguato dentro di lei: una crisi improvvisa o un’autosuggestione e i momenti che entrambe cerchiamo di dimenticare l’afferrano. Ed è un attimo di follia che si scatena. Quel giorno ci aveva portato nostro padre per salutare la nonna morente. Non l’avevamo mai conosciuta. Per tutta l’infanzia ci avevano raccontato che aveva sempre bisogno di cure, per questo stava “nella villa in campagna” con i medici e altre persone come lei. Non l’avevamo mai conosciuta, perché portarci lì, allora? Ci dissero che erano tutti anziani tranquilli, non c’era nessun pericolo. Io non capivo e non capii fino a che non misi piede lì dentro. Ripenso al giardino bellissimo, il buio della sera e le mattonelle del corridoio; ma della nonna nessun ricordo, nessuna immagine è rimasta.
I clienti sembrano entusiasti, tutto procede liscio fino a che non ci dirigiamo verso il grande terrazzo. Qui… l’inizio: vedo che il sole sta calando e mi sento mancare. Mi armo di coraggio, mi invento un sorriso e riprendo il giro della villa parlando forte. Che dico? Non lo so. I fantasmi dei vecchi inquilini riemergono dai muri. Rivedo uno di loro, uno dei vecchi inquilini speciali che per anni condivisero la villa con mia nonna. E’ ancora lì, seduto in un angolo, il suo angolo dal quale raccontava a noi bambine tutte le sfumature della pelle dello zio che sbiancava mentre lo dissanguava, che maledetto lui gli aveva rubato la paghetta facendo la fine che si meritava. Poi in cucina, c’è la signora Giovanna che sorrideva di cuore davanti alla tv mentre davano le migliori ricette di specialità regionali. Appariva buona, dolcissima, sincera, ma l’avevano trovata a cucinare per una settimana intera stufati e arrosti. Con i pezzi della sua migliore amica. La galleria degli orrori continua, mi avvolge: sento ancora l’eco dei racconti terribili che l’anziano custode non risparmiò a noi bambine, rivedo il suo strano cappello, il suo sorriso sdentato e il gesto di tendere le mani come per un abbraccio, poi gli infermieri, nostro padre e le scuse infinite del medico.
Fuori è buio pesto, accendo la luce dello smartphone e quasi scappando mi dirigo verso il cancello. I due giovani mi stanno accanto, muti e con gli occhi sbarrati verso il basso. Che è accaduto? Per me blackout totale, è evidente. Calpestiamo l’erba terrorizzati, superiamo la cappella che si trova sul lato del viale, e intanto mi chiedo cosa possa aver fatto o detto. Come mia sorella? Non voglio rispondermi e raggiungo il cancello ansimando. Come mia sorella? Ci salutiamo con sorrisi isterici, con gentilezza forzata ci strappiamo un “a presto” e ognuno prende la sua strada.
Accendo la macchina, non voglio rispondermi, non posso, le domande mi strozzano.
Di nuovo come mia nonna?