Scrivere con Nicolai Lilin. Il racconto “Un Destino Rosso Sangue” di Marco Gallerani.

Il grande scrittore Nicolai Lilin ha guidato un workshop di scrittura portando una decina di allievi selezionati alla scrittura di un racconto. Condividiamo i bellissimi lavori degli allievi che vi consigliamo di leggere.

UN DESTINO ROSSO SANGUE | di Marco Gallerani

L’appartamento al primo piano dava su una delle vie più trafficate di
Milano. Damiano seduto sul davanzale della finestra con le gambe a
penzoloni nel vuoto, fissava il lampione come fosse una visione.
<Ehi tu, se ti vuoi buttare aspetta almeno che abbiamo finito> uno
degli operai che stavano sistemando la pavimentazione del
marciapiede fece ridere gli altri colleghi.
<Vaffanculo> Così, secco e con voce pacata, senza nemmeno
guardarlo.
<Stronzo, ora vengo su e te lo faccio fare io un bel salto>
Danilo rincasò mentre sotto si era scatenato l’inferno di insulti. Prese
il martello dal centro della stanza, fra pezzi di plastica sparsi, si
inginocchiò sul parquet e con frantumò l’animalino colorato con un
colpo secco. Era l’unico pezzo ancora in vita di quella giostrina
musicale. <È la prima cosa che comprai quando Kalisa mi disse che
aspettavamo un bambino. Dio, com’ero felice. La commessa del
negozio mi chiese se ero il nonno, ma l’avrei baciata in fronte lo
stesso.>
Camminava per la stanza come un ubriaco schiacciando ogni minimo
frammento di plastica.
<Mariuccia mi diceva che se addomestichi una tigre prima o poi
finirà per sbranarti. Non l’ho ascoltata quando ero in tempo, non ho
ascoltato nessuno quando ero ancora in tempo. Lei era diversa, non
è vero che passava le serate con me per soldi, lei mi amava.>
Andò verso il terrazzo e si fermò davanti alla vetrata. Si specchiò
girandosi in varie pose. <Come mi sono ridotto.>
Lanciò il martello e mandò in frantumi l’immagine di un uomo
trasandato, dai capelli colore del tempo passato. Lo raccolse, calpestò
più volte i frammenti di vetro. Uscì sul terrazzo, altri vetri in terra.
<Come cazzo sono messo!> Questa volta urlò a tutta voce. <Sei un
vecchio stronzo.> Da sotto l’operaio si era vendicato. Si chinò e
iniziò a martellare ancora, ancora, mentre schizzi di liquido verde
sporcavano la giacca bianca del pigiama.
<Direttore sei uno stronzo anche tu.> Urlò guardando il soffitto. Era
l’inquilino che abitava sopra. Il vecchio direttore della banca, ormai
in pensione, con l’hobby del giardinaggio, convinto che le piante

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dovessero essere coltivate a clorofilla. Faceva filippiche a tutti quelli
che riusciva a intrappolare, intanto il liquido arrivava al piano di
sotto. <Le piante hanno il loro destino> diceva con la convinzione di
uno scienziato pazzo.
<Perché non la smetti con questi esperimenti del cazzo?>
Questa volta urlò verso il vuoto e non ricevette risposta. Il direttore a
quell’ora stava al parco per la corsetta quotidiana. Tornò in casa,
attraversò nuovamente il selciato di giochi, raccolse da terra un lungo
coltello da cucina e si diresse verso il corridoio che portava alla zona
notte. Sulle pareti un collage di foto monotematiche. Danilo e i sui
sport estremi: arrampicata; kajak; surf; rafting. Solo una fuori tema lo
ritraeva con una splendida ragazza vestita da sera. Aveva tratti
orientali e un corpo da modella; meravigliosa! Prese a mazzate
quell’immagine come se dovesse schiacciare una colonia di formiche
africane. Si appoggiò sfinito e iniziò a singhiozzare.
<Troia, ti avrei dovuto lasciare marcire in quel locale puzzolente. Ti
ho dato tutto e ti sei presa tutto.>
Tirò con forza il martello nel muro che gli rimbalzo nel visto,
spaccandogli il labbro superiore. Ora Il pianto era giustificato anche
dal dolore e gocce di sangue diluite dalle lacrime segnavano il
pavimento chiaro. Lasciò una scia fino alla camera da letto.
Si inginocchiò davanti al comodino pieno di foto di un neonato.
<Quanto sei bello figlio mio, l’unica cosa che volevo in vita mia. Tu
sei la mia vita.> Non piangeva, ma si muoveva come avesse lo
stomaco trafitto.
Sul piano una lettera ancora aperta. Said non è figlio tuo. Non mi
cercare, non voglio più vederti. Simin
<Puttana, sei una puttana.>
Batté più volte la fronte sul piano fino a imbrattare il foglio di
sangue.
Iniziò a spogliarsi tamponando le ferite con la stoffa del pigiama.
Andò davanti allo specchio dell’armadio e si guardò a lungo il corpo
molle.
<Non sono più io, non sarò mai più io.> Si diresse verso il bagno,
entrò nella vasca con il coltello fra le mani, aprì l’acqua e si sedette
rannicchiato.
<Vediamo qui sotto a chi interesserà il colore del mio destino>

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