Di Leona Aly
“Ti prego fa che non sia lui” – tanto è lui; è sempre il lui che tu speri che non sia. Pregavo perché per una volta, una soltanto, potessi rimanere sorpresa in positivo e invece, puntuale come la regola di Murphy, mi ritrovato l’uovo di pasqua con la sorpresa peggiore.
Mi puntava, era lui per forza: più basso, più tondo, più pelato: una schifezza insomma. Avrei potuto evitare di mettermi il tubino rosso con su scritto mangiami tutta e puntare su jeans e camicia destrutturata. Ben infilata nei pantaloni, si intende!
“Nicla?” Beh, almeno la voce è calda e profonda.
“Paolo?” Gli feci un sorriso porgendogli la mano. Con disappunto mi resi conto di non riuscire proprio ad essere indisponente; l’accoglienza ha sempre fatto parte del mio DNA, anche quando ne avrei fatto volentieri a meno.
“Caffè?” Aveva gli occhi vivi, profondi, maliziosi ma non volgari e, cosa ancora più incredibile, rimasero fissi sui miei senza indugiare sulla scollatura che metteva in evidenza il seno. Ero sicura che mi avesse
squadrata ben bene mentre avanzava lungo il corridoio, ma adesso indugiava solo sul mio viso, senza ammiccamenti, con classe; apprezzava con malizia ma senza volgarità, coerente coi suoi occhi.
“Caffè!” risposi.
Mi indicò la strada con galanteria, come un uomo d’altri tempi, con i gesti tipici di chi ha premura, ma anche rispetto. Chissà se stava già pensando a come scoparmi.
Mi aveva messo a mio agio. Incredibile, aveva detto solo due parole e mi aveva messa a mio agio. Aveva un linguaggio del corpo rassicurante, quello di chi ha la situazione sotto controllo e sa come agire.
Dovevo solo poggiarmi a lui e lasciarmi andare, un principe azzurro trasformato in un rospo.
Mi sedetti al tavolino e accavallai le gambe. Visto che c’ero incrociai anche le braccia al petto, non volevo assolutamente far pensare che fossi disponibile a qualcosa di più di un caffè; sarà stato anche un principe
azzurro, ma davanti ai miei occhi c’era comunque il rospo e non avevo nessuna intenzione di farmi toccare dalle sue zampe umide e viscide, per quanto la lingua potesse avere il suo perché. Indugiai un tantinello di troppo sul pensiero della sua lingua tra le mie gambe. L’astinenza da sesso cominciava a farsi sentire; temevo che mi sarei accontentata anche della lingua di un topo pur di riaccendere qualche lucciola nel tunnel.
Paolo chiacchierava mantenendo una conversazione amabilmente interessante e mentre nella mia testa la sua bocca stava decisamente facendo altro, mi limitavo ad accennare con il capo o a rispondere con
qualche mh mh qua e là. Dovevo sembrare molto presa dal suo discorso. Speravo solo non arrivasse qualche domanda diretta a cui avrei dovuto far seguire una risposta altrettanto diretta. Decisi di focalizzare il cervello sul suono della sua voce. In effetti era piacevole, e la barba che contornava le sue labbra belle piene rendeva i movimenti della bocca piuttosto sensuali. Tornai a pensare alla sua lingua.
Immediatamente riaccavallai le gambe in senso contrario, sciolsi le braccia e bevvi il mio caffè. Là sotto qualche lucciola aveva cominciato a dare cenni di vita; ero talmente a secco che mi avrebbe accesa anche un raggio di sole, cazzo!
Si alzò sorridendomi, e mi porse la mano: “Ti spiace se andiamo?”
“No”.
Nooo? Dove! Dovevo rispondere dove, non No! Che cazzo significa no e dove mi voleva portare adesso?
Ammesso che volesse portarmi da qualche parte. Probabilmente si era stancato del soliloquio e mi stava dando il benservito. I suoi occhi erano ancora puntati sul mio viso: il galantuomo ancora non aveva indugiato sulle mie tette.
Uscimmo dal centro commerciale, la giornata era piacevole e il sole tiepido. Mi arrivò una ventata di aria fresca sotto il vestito, una sensazione frizzante, come il preludio di una sinfonia nota seppur ancora da comporre.
“Ti va se ci facciamo un giro in macchina?”
“Volentieri”
Dovevo essere diventata rossa: erano i suoi occhi carichi di promesse a tenermi legata alla situazione o la sua bocca sensuale che si schiudeva mostrando i denti bianchi e liberando la sua voce calda?
Entrai nella sua macchina che sapeva di mango artificiale e di pulito. Doveva aver preparato la scena con cura, il sedile passeggero era già completamente indietro in modo da lasciare il più ampio spazio di
manovra. Mi guardò, mi sorrise e partì. Guidava un’auto con il cambio automatico e la sua mano destra si poggiò cautamente sulla mia gamba mentre parlava della sua passione per Stanley Kubrick e del perché il
suo ultimo film non fosse stato capito. Di quanto il regista avesse dovuto nascondere di quel mondo affascinante a causa di censure e bacchettoni benpensanti. Continuava a guardarmi negli occhi in attesa di un cenno. Per tutta risposta allargai le gambe in modo quasi impercettibile, e mi feci leggermente indietro con la spalliera del sedile. Non avevo nessuna intenzione di perdermi il piatto forte considerato che l’antipasto aveva solo aumentato il mio appetito. La sua mano però pareva non avere fretta, indugiava sulla mia coscia accarezzandola da sotto al vestito. Di sicuro aveva già notato le mie comodissime calze autoreggenti; gli sarebbe bastato pochissimo, pochi centimetri più in su ed avrebbe trovato le mie mutandine già completamente bagnate e me pronta ad accogliere le sue dita. Ma non saliva e stuzzicava il mio desiderio con leggeri movimenti circolari delle dita. Sospirai e guardai fuori. Avevamo già lasciato il centro abitato, non sapevo dove volesse portarmi, ma a questo punto non vedevo l’ora di arrivarvi.
Svoltò e dopo poco ci ritrovammo immersi nella natura, nascosti da alberi e cespugli, in un piccolo luogo incantato lontano da tutto. Spense e si girò verso di me. Sorrise e mi prese il viso tra le mani, la sua lingua aprì delicatamente le mie labbra e si insinuò dolcemente nella mia bocca. Indugiò per assaporarne il sapore e poi, disegnando piccole curve sul collo, scese lentamente verso il seno che si trovava già libero nella sua mano. Si attaccò al capezzolo e lo baciò mordendolo fino a farmi gemere. Più allargavo le gambe invitandolo disperatamente a spegnere il fuoco che si era acceso tra le mie mutande, più la sua bocca si attardava sulla parte alta del mio corpo. Sentivo un pulsare profondo e il dolore che prelude al piacere aumentare crudelmente. Finalmente la sua mano scese e si fece strada nel delta impetuoso. Ero pronta ad accogliere le sue dita e sollevavo il bacino impaziente, ma lui si fermò sul clitoride stuzzicandolo. Gemevo e pregavo, pregavo e gemevo, il piacere cresceva e cresceva senza fine.
“Ti prego, ti prego sfondami”.
Finalmente, due delle sue lunghe dita penetrarono con forza le mie carni immergendosi nelle profondità di quel liquido caldo. Il mio corpo ebbe un sussulto, e poi si rilassò pronto ad apprezzare ogni piccolo movimento e ad accogliere il piacere che ne derivava. Più il piacere aumentava, più ne volevo. Volevo il suo cazzo duro fra le gambe e volevo essere sbattuta contro la portiera della macchina con dolcezza e violenza; con la mano cercai fra le sue gambe: lui comprese le mie intenzioni e mi aiutò a tirarlo fuori. Lo presi fra le mani: era duro e caldo proprio come speravo e con un lento movimento ritmico la mia mano gli offrì un piccolo assaggio di ciò che lo aspettava. Aprii le gambe e spostai il corpo in modo da offrirgli la mia parte più bagnata. Lo volevo dentro di me e lui tolse via le dita per far posto a qualcosa di più grosso, più lungo e più duro.
Gemetti insieme a lui. Il mio fiume in piena lo faceva scivolare su e giù dentro di me e ogni colpo in avanti era una spinta in più verso il piacere. Urlavo, e lui mi cavalcava e mi strizzava le tette e me le mordeva e mi cavalcava, e mi cavalcava ancora e ancora fino a quando il mio corpo si arrese. Un orgasmo perfetto aprì le porte al suo che si lasciò andare con un’esplosione fra le mie gambe.
I respiri man mano sempre più regolari segnarono la fine della cavalcata e il ritiro naturale del guerriero mi lasciò nuovamente vuota.
Mi guardò e sorrise. Continuava ad avere gli occhi vivi e maliziosi e la sua bocca sensuale continuava a eccitarmi nonostante avessimo appena finito di scopare. Si risistemò con signorilità e posò con dolcezza le sue labbra sulle mie. Poi ricollocò il mio seno all’interno del vestito e mise in moto diretto verso il parcheggio del centro commerciale.
“Sono stato davvero bene, spero di rivederti presto”.
“Anche io”, risposi con un sorriso mentre scendevo dalla sua auto, “ fatti risentire, se ti fa piacere”.
“Certo, non vedo l’ora” accompagnando il commento con un sorriso carico di allusioni.
Lo guardai ancora una volta mentre si allontanava con la macchina. Era stato decisamente all’altezza delle mie aspettative, o delle mie speranze. Quella scopata me la sarei ricordata per un bel po’. L’avrei richiamata alla memoria nei momenti di noia in attesa del prossimo incontro. Quando l’auto di Paolo divenne un piccolo puntino, mi allontanai dalla macchina a cui mi ero avvicinata; la mia era tre file più indietro. Mentre mi avviavo guardai l’orologio: “Cazzo! Già le sei e mezza! Avevo detto a Massimo che
sarei rientrata per le sei.” Avevo solo un’ora e mezza per organizzare la cena dei bambini, prepararli per la notte, farmi una doccia e lustrarmi per la serata. Alzai gli occhi al cielo: una cena con i colleghi di mio
marito proprio non ci voleva.
Entrata in auto, misi in moto e mi guardai allo specchio; avevo la classica faccia post scopata. Misi un leggero copriocchiaie, il fard e il profumo per coprire l’odore di sesso e sudore. Poi tirai fuori il cellulare
dalla borsa. Bloccai il contatto di Paolo, lo spensi e lo riposi nel nascondiglio che avevo creato apposta nel vano portaoggetti. Paolo lo avrei sicuramente annoverato tra le scopate mensili migliori, ma senza nessuna nostalgia. In fondo tutti i principi azzurri ad un certo punto tornano a essere rospi.