Identità

di Marco Puglia

Decimo giorno chiuso in cella. Ricordo quando sono venuti a prendermi. Parlavano di riabilitazione e mi sono ritrovato qui, a Levic, nel quarto pianeta del sistema Valisguna, con l’atmosfera densa e carica di arsenico. Il luogo perfetto in cui costruire un manicomio criminale.

La porta di metallo si apre. Tre figure in camice bianco e maschera antigas mi trascinano lungo un corridoio stretto, dalle pareti bianche e asettiche, fino a una stanza vuota. C’è solo un letto, su cui vengo legato mani e piedi. Mi coprono bocca e naso con una maschera trasparente e l’anestetico rende tutto buio.

Il risveglio è improvviso. Apro gli occhi, ma vista e udito sono attutiti. Vedo ombre di infermieri chini sui monitor. Provo ad alzarmi con fatica. Percepisco agitazione. Percepisco una puntura sul braccio, grugnisco. L’infermiere con la siringa mi guarda, poi fugge terrorizzato.

Scendo dal lettino e sento il peso del mio corpo, ma allo stesso tempo i muscoli sembrano pronti a scattare. Le dita delle mani sono deformate e terminano con lunghi artigli, la pelle è grigia, le vene pulsano, ma non ho paura.

Il torpore si affievolisce e un istinto animalesco prende il sopravvento. Con un balzo sono nel corridoio. Due guardie mi corrono incontro. Alzo le braccia e affondo gli artigli nei loro bulbi oculari scaraventando i corpi contro le pareti. Cerco di riprendere il controllo ma gli arti non rispondono e mi spingono verso l’esterno.

Ad attendermi fuori, due tramonti e un lago color ruggine. Un conato mi piega in due e vomito un liquido violaceo. Di nuovo quella forza misteriosa cresce e prorompe in un urlo liberatorio. Poi corro verso il lago e mi tuffo.

Sento il liquido denso che mi avvolge. Mi sento protetto. Sono a casa.

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